martedì 4 febbraio 2014

La recensione di Tony il Poeta

Viaggiatori nella Notte – Una recensione


E’ con piacere che pubblico questa recensione di “Viaggiatori nella Notte”. Soprattutto perché viene dalla penna di uno dei “personaggi” di cui Bart canta le vicende: Tony il Poeta.
In persona.
Quindi, prendete un bel respiro e preparatevi ad immergervi in quell’atmosfera ubriaca, idealista e “operaia” che si respira al bar di Gino; chi ha sfogliato il libro sono sicuro sa di cosa parlo. E tenetevi forte, perché la passione, anche in queste righe, è tanta.

Quando ci si trova ad esprimere un parere a riguardo della produzione artistica di un autore debuttante (il bravo Bartolo mi perdonerà se a mezzo secolo compiuto lo definisco così) si corrono sempre dei seri rischi. Quali? Il primo è prevalentemente a carico dell’autore stesso. Troppi, infatti, si improvvisano scrittori, poeti, cantanti, attori, ballerini e via dicendo, e tra mille e mille di questi solo uno, forse, ha virtù e contenuti per definirsi tale e magari nemmeno lo sa. Può accadere, per ovvia conseguenza di questo non propriamente favorevole rapporto numerico, che chi è chiamato (a qualunque titolo) a pronunciare una valutazione su una tale opera di un tale sedicente artista finisca con l’apparire spietato nel momento di lasciarsi andare ad un commento franco perchè il più delle volte è una bocciatura in tronco. La mia esperienza, e da qui in poi mi riferirò solo alle produzioni letterarie perché presumibilmente di tale fatta possono essere denominate quelle del buon Bartolo, è che qualunque espressione di bocciatura, ancorché intrisa di ironia, disinvolta caricatura o persino di aperto disgusto, incide solo inizialmente sull’emozione dello sfortunato e criticato artista che, superato l’eventuale iniziale smarrimento, riparte alla carica nell’imbarazzo di tutti coloro che, vicini di casa, parenti, colleghi e malcapitati del giorno, riprendono a subire la rimonta dell’incontrollabile impulso all’esposizione del proprio prodotto. A quanti piace guardare l’album delle foto del matrimonio che i novelli coniugi si affannano a sottoporre, prima di cena e dopo cena, a tutti quelli che non se ne possono infischiare di meno? E’ così che funziona.
     Il secondo rischio, invece, è a esclusivo carico di chi giudica. Avviene, in quel famoso uno su mille, che l’opera piaccia. In questo caso il giudicante deve, e ripeto deve, dar conto e ragione di questo innamoramento artistico ed individuarlo (con l’obbligo di apparire competente) nell’uso appropriato di una forma linguistica, nella dotta elaborazione del contenuto letterario, nella forza adulatoria e seducente della storia narrata e dei sentimenti che la condiscono, e così continuando. Ma cos’è un’appropriata forma linguistica? Di sicura sappiamo che Omero, nelle traduzioni di Vincenzo Monti, e Leopardi non tornano più, ahinoi!, e la letteratura contemporanea ha in buona misura messo da parte, a torto, ogni lirismo linguistico, ma non è forse vero che Charles Bukowski o Ferdinand L. Celine, i primi che mi vengono in testa, che di virgole, punti e virgola, minuscole, maiuscole e coniugazioni han fatto scempio, sono stati e rimangono autori amati e largamente venduti sul mercato? E ancora, cos’è il contenuto letterario se, messi da parte il firmamento, il dì di festa e un bacio profumato, le canzoni (poesie, poesie) di Tom Waits ci seducono con un lampione e con lo squallore di una fumigante strada a fondo cieco?
     No, qualcosa non torna, amici. La poesia e la prosa non possono essere materia esclusiva di circoli letterari pieni di vecchi conservatori dalle chiome ingrigite, chiusi al nuovo come Satana alla Croce, né possono essere il frutto di oltraggiose speculazioni editoriali che promuovono al rango di grandi lavori letterari delle opere dismorfe e sostanzialmente insignificanti. C’è il nuovo che emerge e proviene dai bassifondi, per l’accademia c’è sempre tempo. Leggetelo, il mio amico Bart. Voi senza la erre francese, voi che fate a botte con la realtà di ogni giorno, voi senza nessuno che pensa per voi, voi che per lavorare fate fatica e non ammaestramento, voi che per fare figura non pescate a caso nel caleidoscopio delle stronzate, voi che la vita non è un barattolo di miele, voi vi accorgerete che c’è qualcuno che spende qualche minuto al giorno a sublimare la dignità degli ubriachi, la delusione dei disoccupati, la bellezza degli idealisti, la verginità dei paesaggi che l’avidità umana non ha ancora corrotto, il decoro delle tute degli operai che rare mogli devote stendono al sole, al quel sole che se ne sbatte dei ricchi e degli endecasillabi perché non può essere comprato e spartito nei club. Bart scrive di tutto questo, percorre questi sentieri di solitudine e speranza, e lo fa in sordina perché sa di non essere nato letterato, sa di avere le stampelle e non le gambe, ma disvela l’esistenza, presente o passata, di un’infinita lista di soggetti umani, di neri, sbudellati, intossicati, visionari, avventurieri che hanno speso e pensato ogni istante della propria vita con il blues, il soul, il rock e le cento sfaccettature della “musica minore” nella testa e nel cuore. Bart ci insegna qualcosa, ed io non posso mettere in rassegna cosa, perché aggiunge del nuovo in ogni riga, perché non finisce di stupire, perché sa tanto di un mondo parallelo che la discografia modaiola e commerciale relega ogni giorno dietro le quinte. Bart non è uno scrittore, si avvicina ma non lo sarà mai. E’ un uomo solitario che non è ancora divenuto un asociale. Un introverso che comunica non stringendo amicizie al cine o al ristorante, ma condividendo la sua conoscenza musicale attraverso i suoi appassionati post, come alla domenica si condivide il Padrenostro stringendoci le mani. Solo che fuori dai post Bart non invidia e prevarica alcuno. Perdonatelo, invece, per qualche “topica” formale, leggete le sue righe con calma olimpica, proprio perché lui le scrive in piena eruzione mentale. C’è un mondo di arte, di musica, di gente vecchia e nuova a cui non vorremmo mai somigliare, ma che ogni tanto sogniamo di essere. Per il resto Bart, credetemi, è una testa di cazzo come tutti noi. Pure peggio.
Antonio Lo Presti (Tony il poeta)